Buon Compleanno!
Il 26 o il 27 gennaio papà avrebbe compiuto 95 anni. In effetti era nato a cavallo tra il 26 e il 27 di gennaio. Quindi, con una certa discrezionalità, veniva festeggiato o il 26 o il 27. Già da questo inizio di vita si può comprendere che nulla di quello che ha fatto il papà sia mai rientrato nell’ordinario.
Per la maggior parte delle persone era il professor Azzone, pochi lo chiamavano Licio (anche se all’anagrafe era Giovanni Felice Gennaro Battista Maria); per me e per le mie sorelle era papà.
Molto è stato scritto sul contributo di papà come scienziato e come professore di patologia generale all’Università di Padova (https://www.lincei.it/it/news/giovanni-f-azzone-patologo-e-socio-linceo-si-%C3%A8-spento-95-anni), poco o nulla, invece, su papà vignaiolo. Oggi, quindi, vorrei raccontarvi proprio di questo, cominciando con un aneddoto che può sembrare poco rilevante, ma che, invece, è molto significativo.
Papa era piccolo di statura, magro e minuto. Quando non correva (e questo era il suo modo preferito per raggiungere una destinazione, che fosse da solo o che avesse le figlie appresso) e non andava in bicicletta, camminava sempre con le mani dietro alla schiena, sguardo a terra. Pensoso. Mi ricordo perfettamente che l’ultimo anno che insegnò all’università, era l’anno 1997, mi chiese se volevo andare a vedere la lezione di presentazione del corso di patologia generale che faceva ogni anno agli studenti del terzo anno di medicina. Accettai, ero curiosissima di sentirlo parlare come “professore”. L’Aula Magna era immensa, io arrivai prima e mi sedetti in prima fila. In poco tempo l’aula si riempì completamente, chi non era riuscito a trovare un posto a sedersi era in piedi, tutti stipati l’uno attaccato all’altro. Papà non faceva più molte lezioni, negli ultimi anni di insegnamento perdeva la voce molto facilmente e quindi anche per gli studenti sentirlo parlare era un po’ una rarità. Mentre aspettavo che arrivasse, mi chiedevo come avrebbe fatto ad entrare nell’aula, lui così “piccolo”, ero preoccupata che gli studenti non si accorgessero di lui, che non lo vedessero proprio. Invece, ad un certo punto, notai che dietro di me si stava creando uno spartiacque e che, in mezzo, incominciava ad apparire la chioma bianca del mio papà: lui lentamente, senza dire una parola, andò a sedersi in cattedra. A quel punto si creò il silenzio più totale. Ecco, se mai avevo dubitato che un centinaio di ventenni avessero la capacità di stare in silenzio assoluto per qualche minuto mentre mio padre si sistemava il microfono, avevo appena avuto una clamorosa controprova del mio errore.
Bene, io non sono laureata in medicina, mi aspettavo la presentazione di un corso tecnico e vedevo ben poco romanticismo nella descrizione di un corso di patologia generale. E, invece, papà fece una lezione sul ruolo etico della professione di medico, sulla dignità di vivere e quella di morire e sul ruolo fondamentale del medico in questa discussione. E non parlava dall’alto delle sue opinioni - che certamente aveva-, bensì invitava gli studenti a riflettere e a porsi domande etiche. Ora tutti questi argomenti sono diventati attuali e oggi si parla tanto di etica nel mondo della medicina. Ma non nel 1997. Inutile dire che lasciò tutti a bocca aperta e che la fine del suo discorso fu coronata da un lungo applauso.
Papà era un visionario, guardava al di là dell’ovvio, ti spingeva sempre con le sue domande a mettere in discussione lo status quo. Era sempre interessato a sentire l’opinione dei sui interlocutori, che si trattasse di scienza o di vino chiedeva sempre: “ma Lei cosa ne pensa?” Questa è la frase che tutti gli allievi e i collaboratori associano al papà.
Fatto questo lungo preambolo - la brevità non è tra le mie qualità-, nel 1985 papà entra in Roveglia. Qui si trova davanti una realtà che predilige la damigiana e vende solo al territorio locale. I terreni di proprietà a vigneto sono solo 15, il resto, come mi diceva sempre lui, era erba. Ovunque, solo erba. Ma chi glielo faceva fare a lui, patologo, biochimico, professore emerito dell’Università di Padova e Accademico dei Lincei, scienziato di fama internazionale di rimettersi in gioco? In fondo lui non era vignaiolo e qui c’era solo da armarsi di coraggio ed entusiasmo e rincominciare da zero (o pressoché zero). La sua fu la lungimiranza: papà capì subito il potenziale di quel vino praticamente sconosciuto. La prima cosa che fece fu cercare un collaboratore, come nel caso del laboratorio scientifico di cui era a capo all’università papà sapeva bene che il successo non è mai ottenuto da una sola persona, ma che ci vuole una squadra che, attraverso il costante dialogo e la stretta collaborazione, crei qualcosa di nuovo. E così, in una calda estate nell’85 papà incontra Paolo Fabiani e da lì nasce quella stretta collaborazione che fa sì che Paolo sia ancora oggi alla guida della Tenuta Roveglia. Nell’88 abbiamo messo in commercio il primo Lugana con la nostra etichetta.
Mi ricordo ancora l’orgoglio del papà. Spinto dall’entusiasmo e dalla convinzione che fosse un ottimo prodotto, papà andò in tutte le enoteche di Padova a far provare il vino, ma, con suo grande rammarico, pochi erano pronti a scommettere su un vitigno, il Turbiana, e su un vino, il Lugana, praticamente sconosciuti. Se la situazione era così a Padova, figurarsi proporre il vino all’estero! Ma, ancora una volta, grazie alla sua lungimiranza, papà capì che per andare avanti era assolutamente necessario investire sul territorio, sulla terra di Lugana. Nel 1990 venne costituito il Consorzio per la Tutela del Lugana e papà credette, fin dall’inizio, che questo fosse lo strumento fondamentale per la promozione di un territorio e di un vino unici: il Lugana. La nostra prima etichetta rappresenta proprio questa visione: la parola LUGANA è scritta in grande, il nome del vino non appare. Mi ricordo perfettamente quando seduti intorno all’unica scrivania che avevamo in ufficio discutevamo dell’etichetta facendo varie prove con la fotocopiatrice e di come papà insisteva che la parola Lugana prendesse tutta l’etichetta.
Il 3 gennaio, dopo una lunga malattia, si è spento Giovanni Felice Gennaro Maria, detto Licio, il mio papà. Uomini come lui, però, non ci lasciano mai; i suoi insegnamenti, le sue sfide, le sue domande inquisitive sono e saranno sempre alla base della Tenuta Roveglia. Ciao papà. Non ti preoccupare, andiamo avanti noi.